Quanto può essere casuale l’apprendimento?

Mentre l’apprendimento permanente assume sempre più importanza, cresce anche l’interesse nei confronti dell’apprendimento informale. Tuttavia, c’è sempre più confusione attorno al concetto e alle sue effettive implicazioni.

Illustrazione di Federico Lopes
↑ Illustrazione di Federico Lopes, Centro scolastico per le industrie artistiche CSIA, Lugano
SUFFP

Di Milan Glatzer e Antje Barabasch

Il ciclo di vita del sapere si accorcia progressivamente e la nostra è sempre più una società della conoscenza. Di conseguenza l’apprendimento informale – cioè l’apprendimento al di fuori delle istituzioni di formazione – ha assunto un significato sociopolitico.

La prima discussione attorno a una politica della formazione nell’ambito dell’apprendimento informale si situa all’inizio degli anni ’70, nelle pubblicazioni dell’UNESCO e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Dagli anni 2000, anche l’Unione europea ha dedicato sempre più attenzione al tema, dando prova di come la concezione dell’apprendimento informale sia cambiata. Il perno della questione è il ruolo dell’intenzionalità nelle attività di apprendimento.

Due definizioni contraddittorie

Nelle proposte di riforma dell’UNESCO e dell’OCSE l’elemento centrale era la promozione dell’apprendimento informale su basi idealistiche, ad esempio attraverso la creazione di strutture sociali democratiche e l’abbattimento delle barriere all’istruzione. I più recenti approcci di ricerca dell’UE sottolineano invece l’importanza dell’apprendimento informale per la vita professionale.

Questo cambiamento si riflette nelle diverse definizioni di apprendimento informale. L’OCSE ne evidenzia il carattere casuale e non intenzionale: «L’apprendimento informale non è mai organizzato, non è orientato agli obiettivi di apprendimento e non è mai intenzionale dal punto di vista di chi apprende. Spesso viene definito come apprendimento per esperienza o semplicemente come esperienza».

Numerosi progetti di ricerca dell’UE definiscono invece l’apprendimento informale come «Qualsiasi attività che implichi il perseguimento della conoscenza, di un sapere o di un’abilità, svolta senza criteri curricolari imposti dall’esterno». Il termine «perseguimento » è qui particolarmente rilevante: in questa definizione, l’intenzionalità dell’apprendimento è centrale.

Ritorno alle origini

È notevole come il limite tracciato dall’UE attorno all’intenzionalità contraddica l’approccio del filosofo John Dewey, che è considerato il fautore della nozione di apprendimento informale e che ha fortemente influenzato l’approccio dell’UNESCO e dell’OCSE.

Dewey parte dal presupposto che l’apprendimento si basa sull’esperienza e quindi non è intenzionale. Nell’esperienza di apprendimento, il fattore determinante è il raggiungimento di uno stato di armonia con l’ambiente circostante, un processo che coinvolge le emozioni. Tali emozioni rendono possibile un’«azione costruttiva», che comporta a sua volta un «processo cognitivo ». È solo attraverso le emozioni che l’essere umano è in grado di riunire in «un tutt’uno» i diversi elementi di un’esperienza, di espandere la sua conoscenza e il suo orizzonte d’azione. È ciò che descrive Dewey nella sua opera del 1980 «Arte come esperienza». Secondo il filosofo, l’apprendimento informale non si colloca al di fuori delle istituzioni, ma anzi, dovrebbe essere incorporato al loro interno.

L’apprendimento permanente come credo scientifico

Nelle scienze dell’educazione, l’intenzionalità è naturalmente collegata al discorso sull’apprendimento permanente. In questo ambito, l’apprendimento è da intendersi come un’acquisizione di una serie prestabilita di competenze che arricchiscono le qualifiche professionali di una persona, piuttosto che come un percorso individuale di crescita.

Per quanto possa essere condivisibile, questo ragionamento rischia di creare confusione nella comprensione dei processi di apprendimento. C’è il pericolo di trascurare il fatto che l’apprendimento costituisce una necessità sensoriale per l’essere umano e di non interrogarsi su quali siano le condizioni più appropriate per favorirlo. Quali siano le giuste premesse affinché le persone possano sviluppare il loro potenziale è una questione imprescindibile nelle scienze dell’educazione, se si vuole rafforzarne l’indipendenza disciplinare. In questo senso, il lavoro di John Dewey può servire da guida.

Convalida delle prestazioni di formazione informali da parte delle scuole specializzate superiori

Di Sonja Engelage

L’obiettivo di un progetto di ricerca della SUFFP è stato quello di rilevare come le scuole specializzate superiori (SSS) gestiscono, al momento dell’ammissione ai loro cicli di formazione, i diversi percorsi formativi acquisiti in passato da parte di studenti e studentesse.

Ad esempio, lo studio ha indagato se per studenti e studentesse fosse possibile iniziare uno studio anche se non soddisfano pienamente i requisiti formali di ammissione. Un altro tema della ricerca è stata la questione di come le SSS tengano conto delle prestazioni di formazione non formali e informali già raggiunte, come formazioni continue, esperienze lavorative o conoscenze acquisite nel tempo libero, in modo che parti della formazione non debbano più essere completate o si possa ridurre la durata dello studio.

Secondo l’analisi di 255 cicli di formazione presso le SSS, nella maggior parte dei casi quelle che praticano la convalida tengono conto soltanto delle prestazioni di formazione formali. Nel caso in cui riconoscono e convalidano prestazioni di formazione informali, è per l’ammissione a uno studio SSS piuttosto che direttamente per la formazione. Nel complesso, le prestazioni di formazione informali vengono considerate in particolare se presentano un legame con il posto di lavoro e la professione. Le competenze acquisite in famiglia o durante il tempo libero rivestono soltanto un ruolo marginale.



www.suffp.swiss/pratiche-convalidaprestazioni-formazione-scuole-specializzate